giovedì 19 febbraio 2015

Il Volo della lirica pop e la libertà di essere 'diversi'


Sogno un Festival di Sanremo con Mia Martini che canta La Nevicata del ’56 e mi devo accontentare di Grignani che, raso al suolo il guardrail in stato di ebbrezza (i tempi dell’aiuola sono svaniti assieme alla giovinezza), si ritrova a presentare una canzone dedicata ai mille sogni infranti, tagliamoci le vene per lungo che sarà sicuramente tutto più bello e romantico. Ok, ma non importa, perché #SanremoSonoIo ma lo sono un po’ tutti e a tutti s’ha da lasciare spazio, vista la democratica bellezza della musica. Certo è che a prescindere da Biggio e Mandelli con la loro canzoncina alla Cochi e Renato su quanto la vita sia un inferno e quella sull’apotropatica identità della coscienza iconoclasta (eh vabè ora voglio vedere se voi sapete cosa #Kutso sia la coscienza iconoclasta) intonata dal tono fumacchioso e appicicaticcio di Platinette e Grazia Di Michele, a me questo #Sanremo2015 è piaciuto nonostante l’incedere moralisticamente vintage. 
E’ piaciuto nonostante la figura barbina dell’aristocratica bacchettona di Amici che ha impunemente assassinato una delle canzoni più belle della musica italiana firmata Giuni Russo. Perché, diciamocelo, lei e la comare di avventura potevano idealmente e professionalmente ammazzarsi prima di ammazzare Alghero e spero, prima o dopo, qualche valoroso concorrente del talent di Maria pensi bene di utilizzare la cover come arma di difesa da ingiurie ed improperi di nota origine. Poi ci sono un paio di cose che hanno affievolito la brillantezza di un Festival potenzialmente inedito, a partire per esempio da Emma, cafona quanto basta a farti salire il nazismo come non ci fosse un domani, insicura e arrogante perché “io sono cantante, mica modella”. E allora, se proprio cerchi la naturale cattiveria, vai a fare la cantante e finiscila di sfibrarci i cosiddetti con le tue polemiche gratuite su quanto la Rai ti abbia delusa e su quanto tu preferisca Mediaset. Perché d'accordissimo che la Marrone voleva cantare, ma grazie al cielo l’ha fatto quella sola volta che è bastata a rompere il ghiaccio, assieme ad altre più o meno grandi sfere che non sono certamente di cristallo. L'innata capacità di rendere ruvida e fastidiosa una poesia delicata ed elegante come Il Carrozzone di Renato Zero, peraltro deliziosamente interpretata da Arisa, dovrebbe quantomeno essere denunciata al tribunale della Santa Inquisizione. Poi si, il Festival mi è sommariamente piaciuto, a parte la comparsa della famiglia in grado di costituire da sola 1/3 della popolazione italiana. Invito e partecipazione planati dall’alto, sicuramente non per mano divina ma per mano di chi si serve di ideologie religiose per soddisfare le proprie esigenze politiche: lo stesso stuolo di persone che ha indubbiamente voluto riportare in auge il senso civico basato su saldissimi valori morali tipici della cattolicissima democrazia cristiana che si schierava contro il divorzio ma c’aveva 10 mogli e 15 figli dei quali manco ricordava il nome. Ma anche no, voglio dire, senza voler conteggiare gli spiccioli nelle loro tasche, che sicuramente sono delle carissime persone, si cerca di fare solo dell’ironica riflessione. La Provvidenza agisce fino ad un certo punto e laddove non vi sia l’astratta signorina, interviene senza dubbio un signore più agiato e concreto, che mantiene e rende tutti felici, seppur si dica in giro che la sua presenza non faccia la felicità. Quindi le cose sono due: o i 20 figli li mantiene Eric Forrester che tanto uno in più uno in meno non fa la differenza, o ci sta dietro qualche contributo di base, l’origine non s’ha da considerarla. Poi vabè, diciamocelo pure che a parte la canzone vincitrice alla Nothre Dame cocciantiana che adoro, qualche altro pezzo e qualche cosa isolata, tipo la simpatia di Rocio Morales, le mie due o tre critiche a questo Festival le devo fare e tra queste l’ultima, prima degli elogi.  Era dai tempi di Dante Alighieri che non partecipavano così tanti fiorentini insieme: dalla Nannini che non è sempre la Nannini: dite ciò che vi pare, se amate divinizzare l'artista a prescindere, ma ha steccato che se steccavano così quelli de Il Volo, li avreste presi a manganellate sui denti. Perfetto che sei nell’anima, ci piaci per il tuo spirito rock, per la sensuale mascolinità e tutto ciò che vuoi, ma se hai toppato, non è che l'essere Gianna Nannini diminuisca la pena e il disappunto per la tua esibizione. Voglio dire, te ne sbatterai anche e fai pure bene visto il capitale che tieni segretamente in uno dei quattro cantoni del materasso, ma ovvio che non sei stata eccezionale.
Comunque scatenerò l’odio nei miei confronti, non che Dolores Umbridge abbia poi paura del vostro odio, ma ho letteralmente amato Il Volo, il trio di ragazzi (un po' tanto volentieri toyboy) conosciutissimi oltreoceano che non sopportavo molto perché mi parevano spocchiosi, ma che dopo qualche intervista ho imparato a conoscere meglio. Perché loro sono così, imprevedibilmente esagerati in ogni loro minima manifestazione e pure un po’ semplicioni. E poi, a parte la gigioneria di Spiderman  nel video (angosciante - quello si – e pure a tratti dissacrante verso tre piccoli gioiellini cinematografici) di Grande Amore, il mio essere un’insaziabile “fangirl” mi fa consapevolmente perdere la testa per chiunque si atteggi a divo del grande schermo. E i tre ragazzi possono permettersi sia di atteggiarsi a divi della grande cassa musicale, perché han girato il mondo e hanno un immenso successo purtroppo non abbastanza riconosciuto in Italia, sia di farmi innamorare follemente, che c’hanno una voce capace di far sciogliere le ragazze, almeno quelle che non hanno da scolare la pasta sul fuoco mentre loro cantano Granada. Di base li ringrazio, perché con la loro sfacciata antipatia giovanile che appartiene anche a me, dettata dall’inesperienza e dall’entusiasmo della vita e del successo, sono riusciti a farmi dimenticare le perversioni per Matteo Salvini e per Carlo Cracco che mannaggia a lui fa la pasta alla Gricia con la cipolla tritata e l’amatriciana con l’aglio in camicia. A prescindere da questo, poi, scandagliando bene il testo della canzone sanremese, io Gianluca Ginoble che spende notti intere a far l’amore me lo immagino proprio, soprattutto dopo l’entrata trionfale al Kris Jenner Show che mi fa chiedere perchè, vista la sua meravigliosa voce da baritono, non decida di cantare immobile senza farmi partire la vena artistica ogni singola volta. Certo che Ignazio Boschetto che posa in mutande potrei anche evitarlo, se non fosse per la simpatia di quando durante i concerti s’immerge nella folla di ragazze americane per condividere con loro da vero marpione qualche minimo passo di danza e per farti nascere la voglia di dargli due affettuosissimi schiaffoni sul coppino. E la devastante seriosità di Piero Barone, che da bambino cantava seduto sul cofano delle macchine depositate in officina dal padre, un ragazzotto semplice e a modo, che non smette di ringraziare il nonno commosso ed ammutolito dietro ad un telefono, al quale deve il suo amore per il canto e il suo successo, coltivato attraverso i suoi risparmi. Piero, tanto carino con gli occhiali rossi che si abbinano al mio nuovo vestitino, serio e posato; unica  nota che bilancia l’esuberante eloquenza del gruppo di amici e tenori. S’ha da dire una cosa, che va detta, per correttezza. Che se all’estero piacciono e in Italia inventiamo #IlVoloDallaFinestra la colpa non è degli States e del mondo intero che stereotipizza i tratti del patrimonio culturale e musicale italiano. La colpa è primariamente nostra, che ci si svaluta a tutti i costi, come se non riuscissimo a trovare nulla di positivo in ciò che è stata ed è la nostra storia e la nostra cultura, stereotipata di base come tutte le altre. Basterebbe pensare che in America tutti cantano le nostre canzoni per capire cosa si rappresenti dal punto di vista musicale al di fuori dello Stivale e, di conseguenza, riconoscere in ciò che porta l’Italia nel mondo qualcosa di immensamente positivo, di qualsiasi natura esso sia. Sanremo vive di forza propria e si sa esiste a prescindere dalla carriera internazionale dei singoli interpreti. Sanremo premia la musica italiana, che magari si muove in direzione completamente opposta a quella che poi viene richiesta in radio e che viene apprezzata a livello internazionale. A me Il Volo piace: non l’ho votato perché i centesimi che avevo in tasca li ho spesi a comprare il vestitino rosso che si abbina agli occhiali di Piero nella speranza di un eventuale red carpet, ma ho sperato profondamente nella sua vittoria e mi suscita anche un po’ di simpatia perché mi ricorda quel Berlusconi che nessuno ha votato, che tutti maledicono ma che ha comunque vinto. La ragione di tutto questo risiede in quell’insano desiderio di omologazione che ti porta a fare segretamente ciò che senti ma a doverti giustificare davanti all’opinione pubblica perchè se il pop lirico non va di moda ma ti piace, sei uno sfigato e sfigato è pure chi ama farlo e portarlo davanti a tutti. Poi, se vince, è perché è piaciuto ad altri che non si paleseranno mai. Ma tant’è, pazienza. Mi hanno detto populista, mediocre, ignorante, vecchia ventenne. Mi hanno detto che so’ imbecille perché ascolto un certo tipo di musica, che può non piacere a tutti, ci mancherebbe. Ma è proprio qui che si ha la possibilità di notare lo spessore culturale di un certo tipo di società, non è esclusivamente italiana, ma universale. La stessa società che celebra i grandi talenti ma nel privato annichilisce chi li ascolta, la stessa che se ne strasbatte dei figli che ammazzano di botte i compagni di classe perché ascoltano qualcosa di diverso o perché sognano di incontrare i One Direction. Odioso pensare che il progresso abbia portato ad un meschino livello di subordinazione culturale in cui tutti sono Charlie ma nessuno è libero di essere ciò che vuole essere. Una realtà terribile, non meno terroristica di chi ti fa saltare in aria con un Avada Kedavra perché non la pensi come lui.

Dolores

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